Olivetti in tv: architetti e designer non esistono

Ottobre 30th, 2013 § 0

Ben venga una fiction Rai che si occupa di un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti. Lascio ad altri il commento sull’operazione complessiva – romanzata, retorica… – o sulla qualità televisiva; interessa guardare come racconta una parte fondamentale del lavoro di Olivetti, quella che lo ha spinto a collaborare, oltre che con innovativi ingegneri e poi intellettuali, filosofi e poeti, con gli architetti, i designer e i grafici. Questa idea di impresa – fra le altre cose – aperta e dialogante alla cultura e alle sue manifestazioni più avanzate, al progetto e alla società, portatrice di un’idea responsabile del proprio ruolo, rimane la chiave fondamentale per comprendere la lezione di Olivetti.

Per decenni abbiamo avuto ben altri rappresentanti dell’”imprenditoria”, per cui che si parli di Olivetti è buon segnale, confermato del resto dal successo di recenti iniziative editoriali, scientifiche e di studio a lui dedicate, e fatto ancora più importante che molti imprenditori tornino a guardare alla sua lezione, “facendo cose” olivettiane. Il rapporto fra cultura d’impresa e cultura del progetto è centrale per l’azienda di Ivrea, in verità più in generale per il design in Italia. Certo la concezione degli artefatti fisici e di comunicazione è vicenda complessa, spesso frutto di molte competenze e contributi, cui il designer attribuisce in sostanza una configurazione complessiva e definitiva, sintetizzando un processo e un lavoro di team. La macchina per scrivere Lettera 22 è stata disegnata da Marcello Nizzoli, ma vi hanno collaborato ingegneri, come Natale Capellaro, tecnici della produzione, grafici per la scelta dei colori e l’elaborazione degli strumenti di comunicazione, pubblicitari per gli slogan e molti altri, assieme naturalmente ad Adriano Olivetti che l’ha voluta fortemente.

Nella fiction, i prodotti – siano la macchina per scrivere o i manifesti – sono attribuiti a personaggi “di fantasia”, mentre naturalmente esistono designer che li hanno progettati che non compaiono né sono mai nominati, come del resto avviene per chi ha immaginato le architetture. Unica eccezione un cenno a Ettore Sottsass, come autore della “forma” dell’elaboratore elettronico Elea 9000. Perché mi sono chiesto? Di sicuro il racconto televisivo ha le sue regole – semplifica, semplifica, semplifica; esalta il protagonista, l’uomo forte, l’eroe senza macchia e senza paura; ci vuole una storia d’amore, guarda caso fra la finta-grafica e l’operaio-progettista; e così via – ma l’aspetto entusiasmante della vicenda di Olivetti, per cui merita di essere ricordato e indicato agli imprenditori e alla società contemporanea fondata sull’”economia della conoscenza”, è soprattutto “il gioco di squadra”, il network. Come cioè un industriale illuminato si circonda di alcune fra le migliori menti della sua generazione, a cominciare da architetti e designer. Anche da questa scelta nascono le fabbriche moderne e luminose, gli oggetti che molte persone hanno usato per lavorare in modo comodo e funzionale, una maniera di comunicare assieme artistica e innovativa.

Tutto questo il regista e sceneggiatore Michele Soavi, figlio di Giorgio Soavi storico collaboratore di Olivetti, aveva la possibilità di conoscere bene. E allora perché sprecare questa opportunità? Perché perdere l’occasione di una divulgazione corretta e un minimo colta? Se le storie non sono raccontate con un’adeguata articolazione e complessità, tutto si banalizza e diventa identico; in questo caso è la Storia ad uscirne falsificata. La scusa che il “pubblico vuole questo” o “queste sono le regole della televisione” non regge più da tempo né può essere accettata; innanzitutto perché nessuno possiede il riscontro che una cosa fatta diversamente sarebbe rifiutata. Bene allora parlare di Adriano Olivetti, uno degli industriali più noti nel mondo, pioniere del made in Italy e del design italiano; ma forse si poteva spendere un un po’ più di coraggio e orgoglio. Olivetti ne ha avuto molto e ha avuto ragione.

pubblicato su “Il fatto quotidiano”, 30 ottobre 2013

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